Il processo

3 dicembre 1792:
Discorso di Robespierre

Cittadini! L’Assemblea è stata inconsapevolmente trascinata lontano dalla vera questione. Qui non si tratta di fare un processo. Luigi non è un accusato; voi non siete dei giudici; voi siete e non potete essere altro che uomini di stato, i rappresentanti della nazione. Non dovete pronunciare una sentenza a favore o contro un uomo; dovete prendere una misura di salute pubblica, dovete esercitare un atto di provvidenza nazionale.

Un re detronizzato in una repubblica non può servire che a due scopi: o a turbare la tranquillità dello stato e metter in pericolo la libertà; o a consolidare l’uno e l’altra. In effetti qual è la decisione che una buona politica prescrive per consolidare la repubblica nascente? È quella di imprimere profondamente nel cuore il disprezzo per la monarchia e impressionare tutti i partigiani del re.
Quindi, presentare all’universo mondo il suo delitto come un problema, fare della sua causa l’oggetto della discussione più maestosa, circondata da un alone di sacralità, come la discussione più difficile alla quale possano accingersi i rappresentanti del popolo francese, frapporre una distanza incommensurabile tra il ricordo di ciò che egli fu e la semplice dignità di un cittadino, significa aver trovato il modo per renderlo ancora pericoloso per la libertà.

Luigi fu re, e la Repubblica è stata fondata. Il famoso problema che vi impegna è deciso da queste sole parole. Luigi è stato deposto dal trono per i suoi crimini; Luigi ha denunciato il popolo francese come ribelle. Per punirlo ha chiamato gli eserciti dei tiranni, suoi confratelli; la vittoria del popolo ha deciso che lui era il ribelle; Luigi non può quindi essere giudicato: è già stato giudicato.

O egli è condannato o la Repubblica non viene assolta. Proporre in un modo o nell’altro di fare il processo a Luigi, significa ritornare indietro verso il dispotismo monarchico e costituzionale: è un idea controrivoluzionaria, significa mettere in discussione la rivoluzione stessa: se Luigi può essere oggetto di processo, Luigi può anche essere assolto. Che dico? E presunto innocente fino a che non sarà giudicato. Ma se Luigi viene assolto, se può essere presunto innocente, che ne sarà della rivoluzione? Se Luigi è innocente tutti i difensori della libertà si trasformano in calunniatori. Tutti i ribelli erano dunque amici della verità e difensori dell’innocenza oppressa; tutti i manifesti delle corti straniere sono legittime proteste contro la fazione dominante. La stessa prigionia di Luigi è un’ingiusta vessazione. I federati, il popolo parigino, tutti i patrioti della nazione francese sono i veri colpevoli. Il grande processo che è in corso presso il tribunale della natura tra virtù e delitto, tra libertà e tirannia, viene deciso una volta per tutte a favore della tirannia e del delitto. Cittadini, fate attenzione: su questo punto voi venite ingannati da false nozioni; confondete le regole del diritto civile e positivo con i principi del diritto delle genti; confondete i rapporti dei cittadini tra di loro con i rapporti che intercorrono tra le nazioni e un nemico che cospira contro di loro; confondete inoltre la situazione di un popolo nel mezzo di una fase rivoluzionaria con quella di un popolo il cui governo si sia saldamente affermato; confondete una nazione che punisce un funzionario pubblico, conservando la forma di governo con quella che distrugge il governo stesso.

Spesso noi riferiamo ad idee che ci sono familiari un caso eccezionale che dipende da principi che non abbiamo mai applicato. Quindi, poiché siamo abituati a veder giudicare secondo regole uniformi i delitti di cui siamo stati testimoni, siamo portati a credere naturalmente che in nessun caso le nazioni possano essere equanimi procedendo in modo distinto nei confronti di un uomo che ha violato i loro diritti e che dove non vi è un tribunale, una giuria, una procedura, non vi è giustizia. Le stesse parole che noi applichiamo a idee differenti da quelle che esse esprimono nell’uso comune contribuiscono ad ingannarci. E tale la forza dell’abitudine che riteniamo le più arbitrarie tra le istituzioni, spesso anche le più difettose, come la regola assoluta del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto.

Non pensiamo nemmeno che per la maggior parte dipendono ancora e necessariamente dai pregiudizi dei quali ci ha nutrito il dispotismo, siamo stati curvi così a lungo sotto il suo giogo, che difficilmente possiamo elevarci ai principi eterni della ragione, che tutto ciò che risale alla sacra fonte di tutte le leggi sembra assumere ai nostri occhi un carattere d’illegalità, e che l’ordine stesso della natura ci appare come disordine. I movimenti maestosi di un grande popolo, i sublimi slanci della virtù, si presentano spesso ai nostri timidi occhi come le eruzioni di un vulcano o come il rovesciamento della società politica; e certamente questa eterna contraddizione tra la debolezza dei nostri costumi, la depravazione dei nostri spiriti e la purezza dei principi, l’energia di carattere che presuppone il governo libero che vogliamo istituire, non è l’ultima causa dei torbidi che ci agitano.

Quando una nazione è stata costretta a ricorrere al diritto di insurrezione, rientra nello stato di natura riguardo al tiranno. Come potrebbe questi invocare il contratto sociale? Egli stesso l’ha annientato. La nazione se lo giudica opportuno può ancora conservarlo per quanto concerne i rapporti dei cittadini tra di loro; ma l’effetto della tirannia e dell’insurrezione è di romperlo interamente in rapporto al tiranno, di stabilire un reciproco stato di guerra; i tribunali e le procedure sono fatti per i membri della comunità.

E’ una contraddizione grossolana supporre che la Costituzione possa presiedere a questo nuovo stato di cose; sarebbe come presupporre che essa possa sopravvivere a se stessa. Quali sono le leggi che la sostituiscono allora? Quelle della natura, quella che è alla base della stessa società: la salvezza del popolo. Il diritto di punire il tiranno e quello di deporlo dal trono sono la stessa cosa. L’uno non comporta altre forme dell’altro; il processo al tiranno è l’insurrezione; il suo giudizio è la caduta della sua potenza; la sua pena quella che richiede la libertà del popolo.
I popoli non giudicano come le corti di giustizia; non emettono sentenze; lanciano la loro folgore; non condannano i re; li ricacciano nel nulla.

Questa giustizia vale quella dei tribunali. Se i popoli si armano contro i loro oppressori per la propria salvezza, in che modo potrebbero essere tenuti ad adottare per punirli modi che sarebbero un nuovo pericolo per essi? Ci siamo lasciati trarre in inganno da esempi stranieri che non hanno nulla a che vedere con noi. Che Cromwell abbia fatto giudicare Carlo I da un tribunale di cui poteva disporre, che Elisabetta abbia fatto giudicare Maria di Scozia nello stesso modo è naturale: i tiranni che sacrificano i loro simili, non al popolo, ma alla loro ambizione, cercano ovviamente di ingannare l’opinione del popolo attraverso forme illusorie. In questo caso non sono in discussione ne i principi, ne la libertà, ma gli intrighi e la furbizia.

Ma il popolo! Quale altra legge può seguire il popolo, se non quella della giustizia e della ragione sostenute dalla sua onnipotenza?
In quale repubblica la necessità di punire il tiranno ha suscitato controversie? Tarquinio fu forse portato in giudizio? Che si sarebbe detto a Roma se qualche romano avesse osato assumere la sua difesa? E noi che facciamo? Noi cerchiamo per ogni dove degli avvocati per patrocinare la causa di Luigi XVI. Consacriamo come atti legittimi, ciò che presso ogni popolo libero, sarebbe considerato come il peggiore dei crimini. Invitiamo noi stessi i cittadini alla bassezza e alla corruzione. Potremo un giorno perfino conferire civiche corone ai difensori di Luigi; poiché se difendono la sua causa possono anche farla trionfare; altrimenti non offriremmo all’universo mondo che una ridicola commedia.

E noi osiamo parlare di repubblica! Invochiamo le forme perché non abbiamo principi; ci vantiamo della nostra delicatezza perché manchiamo di energia; mettiamo in mostra una falsa umanità perché non sappiamo rispettare il popolo; siamo teneri con gli oppressori perché non abbiamo cuore per gli oppressi. Il processo a Luigi XVI! Ma cos’é questo processo, se non la chiamata in appello dell’insurrezione davanti a un tribunale o ad una assemblea qualunque? Quando un re è stato annientato dal popolo, chi ha il diritto di risuscitarlo per farne un nuovo pretesto di torbidi e di ribellione? Quali altri effetti può produrre questo sistema? Aprendo una arena ai campioni di Luigi XVI, voi vivificate tutte le contese del dispotismo contro la libertà, voi consacrate il diritto di bestemmiare contro la repubblica e contro il popolo, poiché il diritto di difendere l’antico despota implica il diritto di dire tutto quanto sostiene la sua causa.

Voi risvegliate tutte le fazioni, voi rianimate, incoraggiate lo spirito monarchico assopito. Si potrà liberamente prendere partito a favore o contro. Cosa vi è di più legittimo, di più naturale che ripetere ovunque le massime che i suoi difensori potranno professare ad alta voce alla vostra sbarra e sulla stessa vostra tribuna? Quale repubblica è mai questa, dove coloro che l’hanno fondata le suscitano avversari dovunque per aggredirla nella sua culla?
Osservate quali rapidi progressi ha già fatto questo sistema! Durante lo scorso mese di agosto tutti i partigiani della monarchia si nascondevano; chiunque avesse osato fare l’apologia di Luigi XVI sarebbe stato punito come un traditore. Oggi essi rialzano audacemente ed impunemente la fronte; oggi gli scrittori più screditati dell’aristocrazia riprendono con fiducia le loro penne avvelenate.

Oggi scritti insolenti, precursori di tutti gli attentati, inondano la città dove risiedète, inondano gli ottantatré dipartimenti e perfino il portico di questo santuario della libertà! Oggi uomini armati, chiamati e trattenuti in queste mura a vostra insaputa e contro le leggi, hanno fatto risuonare le strade di questa città di grida sediziose che richiedono l’impunità di Luigi XIV!
Oggi Parigi racchiude nel suo seno uomini convocati, come vi e stato detto, per strapparlo alla giustizia della nazione! Non vi resta più ormai che aprire questo recinto agli atleti che si accalcano già per ottenere l’onore di spezzare le loro lance in favore della monarchia.

Cosa dico? Oggi Luigi divide i rappresentanti del popolo: si parla a suo favore, si parla contro di lui. Chi avrebbe potuto supporre due mesi fa che qui ci sarebbe stata una discussione sulla sua inviolabilità? Ma dopo che un membro della Convenzione nazionale (il cittadino Pétion) ha presentato il problema se il re può essere giudicato, come oggetto di una seria deliberazione preliminare ad ogni altra questione, l’inviolabilità con cui i cospiratori dell’Assemblea Costituente hanno protetto i suoi primi spergiuri è stata invocata per proteggere i suoi ultimi attentati. O crimine! o vergogna!

La tribuna del popolo francese ha risuonato del panegirico di Luigi XVI! Abbiamo sentito vantare le virtù e le benemerenze del tiranno! A mala pena abbiamo potuto strappare all’ingiustizia di una decisione precipitosa l’onore e la libertà dei migliori cittadini. Che dico? Abbiamo visto accogliere, con gioia scandalosa, le più atroci calunnie contro i rappresentanti del popolo conosciuti per il loro zelo verso la libertà! Abbiamo visto una parte dei membri di questa assemblea proscritti dai loro colleghi, denunciati quasi immediatamente dalla stupidità e dalla perversità associate. Solo la causa del tiranno è talmente sacra che non può essere discussa abbastanza lungamente e abbastanza liberamente.

Perché meravigliarci di ciò? Questi due fatti derivano dalla stessa causa. Coloro che si interessano a Luigi o ai suoi simili devono aver sete del sangue dei deputati che per la seconda volta chiedono la sua punizione; essi possono far grazia solo a coloro che si sono raddolciti a suo favore. Il progetto di incatenare il popolo scannando i suoi difensori è stato abbandonato per un momento solo. Tutti i furfanti che oggi proscrivono tali difensori col nome di anarchici e di agitatori devono dunque provocare essi stessi i torbidi che il loro perfido sistema ci annuncia. Se dobbiamo prestar loro fede, il processo durerà per lo meno parecchi mesi; esso raggiungerà la primavera prossima l’epoca in cui i despoti devono scatenare l’attacco generale contro di noi. Quale carriera si apre ai cospiratori! Quale alimento viene offerto all’intrigo e all’aristocrazia! In tal modo tutti i partigiani della tirannia potranno ancora sperare nel soccorso dei loro alleati e le armate straniere potranno incoraggiare l’audacia del tribunale che deve pronunciarsi sulla sorte di Luigi, mentre il loro oro metterà a prova la sua onestà!

Voglio ben credere ancora che la repubblica non sia un nome vano buono solo per tenerci a bada. Ma quali mezzi diversi da questi si potrebbero impiegare se si volesse ristabilire la monarchia?
Giusto cielo! Tutte le orde feroci del dispotismo si preparano a straziare di nuovo il seno della nostra patria in nome di Luigi XVI! Luigi combatte ancora contro di noi dal fondo della sua prigione. Si dubita che sia colpevole; non si sa se sia permesso trattarlo da nemico; si domanda quali sono le leggi che lo condannano.

Si invoca in suo favore la costituzione. Io mi guarderò bene dal ripetere qui tutti gli argomenti sviluppati senza replica da coloro che hanno avuto l’onore di combattere questa specie di obiezione. Dirò in proposito solo qualche parola per coloro che essi non hanno potuto convincere. La costituzione vi proibiva tutto quello che avete fatto. Se egli poteva essere punito soltanto con la sua decadenza, non potevate pronunciarla senza avere istruito il suo processo. Voi non avevate il diritto di tenerlo in prigione; egli ha quello di chiedere la scarcerazione e i danni e gli interessi.

La costituzione vi condanna; buttatevi dunque ai piedi di Luigi ed invocate la sua clemenza. Quanto a me arrossirei a discutere più profondamente queste arguzie costituzionali. Le rimando ai banchi di scuola o del tribunale o piuttosto ai gabinetti di Londra, di Vienna e di Berlino. Non sono capace di discutere a lungo su ciò che sono convinto sia scandaloso deliberare.
È una grande causa, si è detto, che si deve giudicare con saggia e lenta circospezione. Siete voi che ne fate una grande causa. Cosa dico? Siete voi che ne fate una causa. Che ci trovate di grande? La sua difficoltà? No. Il suo protagonista? Agli occhi della libertà non ce ne sono di più vili, agli occhi della umanità non ce ne sono di più colpevoli. Egli può incutere rispetto solo a coloro che sono più vili di lui. È l’utilità del risultato? Ragione di più per affrettarlo.

Una grande causa è un progetto di legge popolare; una grande causa è quella di un infelice oppresso dal dispotismo. Qual è il motivo di questi eterni rinvii che ci raccomandate? Temete di offendere l’opinione del popolo? Come se il popolo temesse altro che la debolezza o l’ambizione dei suoi rappresentanti! Come se il popolo fosse un vile gregge di schiavi, stupidamente attaccati allo stupido tiranno che esso ha proscritto, desideroso a qualsiasi costo di avvoltolarsi nella bassezza e nella servitù! Parlate dell’opinione pubblica; ma non è vostro compito dirigerla e fortificarla? Se essa si svia, se essa si degrada, a chi bisogna attribuirne la colpa se non a voi stessi?

Avete timore di suscitare il malcontento dei re stranieri coalizzati contro di noi? Il miglior modo per vincerli è quello di dimostrare di temerli? Forse il miglior modo per sventare la criminale cospirazione dei despoti dell’Europa è quello di rispettare il loro complice? Temete i popoli stranieri? Credete dunque ancora all’amore innato per la tirannia? Perché dunque aspirate alla gloria di liberare il genere umano?
Per quale contraddizione supponete che le nazioni che non sono state sorprese dalla proclamazione dei diritti dell’umanità saranno spaventate dalla punizione di uno dei suoi più crudeli oppressori? Infine voi temete, dite, le considerazioni della posterità. Si, la posterità effettivamente si meraviglierà della vostra inconseguenza e della vostra debolezza e i nostri discendenti rideranno della presunzione e dei pregiudizi dei loro padri.
Si è detto che occorrerebbe avere del genio per approfondire questa questione; io sostengo che occorre soltanto la buona fede: non si tratta tanto di essere illuminati quanto di non accecarsi volontariamente. Perché ciò che ci pareva chiaro un tempo ci sembra oscuro oggi? Perché ciò che il buon senso del popolo decide facilmente si muta per i suoi delegati in un problema quasi insolubile? Abbiamo diritto di avere una volontà generale ed una saggezza differenti dalla ragione universale?

Ho inteso i difensori dell’inviolabilità avanzare un principio ardito che io stesso avrei forse esitato ad enunciare. Essi hanno detto che coloro i quali il 10 agosto avessero immolato Luigi XVI avrebbero compiuto un’azione virtuosa. Ma l’unica ragione di questa opinione è nei delitti di Luigi XVI e nei diritti del popolo. Ebbene, tre mesi di intervallo hanno mutato i suoi delitti o i diritti del popolo? Se allora lo si strappò all’indignazione pubblica, senza dubbio fu solo perché la sua punizione, ordinata solennemente dalla Convenzione nazionale in nome della nazione, divenisse più imponente per i nemici dell’umanità; ma rimettere in questione se egli sia colpevole o se egli possa essere punito significa tradire la fede data al popolo francese. Forse vi sono delle persone le quali, sia per impedire che l’Assemblea assuma un carattere degno di lei, sia per togliere alle nazioni un esempio che eleverebbe le anime all’altezza dei principi repubblicani, sia per motivi ancora più vergognosi, non sarebbero afflitte che una mano privata adempisse alle funzioni della giustizia nazionale.

Cittadini, diffidate di questa insidia; chiunque osasse dare tale consiglio servirebbe solo i nemici del popolo. Comunque vadano le cose, la punizione di Luigi non potrà ormai valere se non avrà il carattere solenne di una vendetta pubblica.
Cosa importa al popolo la disprezzabile persona dell’ultimo dei re? Rappresentanti, ciò che gli importa, ciò che importa a voi stessi, è che compiate i doveri che la sua fiducia vi ha imposto. Voi avete proclamato la repubblica, ma ce l’avete data?
Non abbiamo ancora fatto una sola legge che giustifichi questo nome; non abbiamo ancora riformato un solo abuso del dispotismo. Togliete i nomi e vedrete che abbiamo ancora in mezzo a noi la tirannia tutta intera e per di più le fazioni più vili ed i ciarlatani più immorali insieme a nuovi fermenti di torbidi e di guerra civile.

La repubblica! e Luigi vive ancora! A furia di scrupoli ho paura che diverremo anche noi dei criminali; ho paura che, mostrando troppa indulgenza per il colpevole, finiremo col mettere le nostre stesse persone al suo posto. Nuova difficoltà. A quale pena condanneremo Luigi? La pena di morte è troppo crudele. No, dice un altro, la vita è ancora più crudele; chiedo che egli viva. Avvocati del re, è per pietà o per crudeltà che volete sottrarlo alla pena dei suoi delitti?
Quanto a me, aborro la pena di morte istituita dalle vostre leggi e non ho per Luigi né amore né odio: odio solo i suoi delitti. Io ho chiesto l’abolizione della pena di morte all’assemblea che chiamate ancora costituente e non è colpa mia se i primi principi della ragione le sono sembrate eresie morali e politiche. Ma se voi non vi siete mai sognati di reclamarli in favore di tanti poveri diavoli i cui delitti sono meno imputabili a loro che al governo, per quale fatalità ve ne ricordate soltanto quando si tratta di patrocinare la causa del più grande dei criminali?

Chiedete una eccezione alla pena di morte proprio per il solo caso che può legittimarla? Si, la pena di morte in generale è un delitto e ciò per l’unica ragione che essa non può essere giustificata in base ai principi indistruttibili della natura, salvo il caso in cui sia necessaria alla sicurezza degli individui o del corpo sociale. Ebbene, la sicurezza pubblica non lo richiede mai contro i delitti ordinari, perché la società può sempre prevenirli con altri mezzi e mettere il colpevole nell’impossibilità di nuocerle. Ma quando si tratta di un re detronizzato nel cuore di una rivoluzione tutt’altro che consolidata dalle leggi, di un re il cui solo nome attira la piaga della guerra sulla nazione agitata, né la prigione, né l’esilio, possono rendere la sua esistenza indifferente alla felicità pubblica; e questa crudele eccezione alle leggi ordinarie che la giustizia ammette può essere imputata soltanto alla natura dei suoi delitti. Io pronuncio con rincrescimento questa fatale verità...

Ma Luigi deve morire, perché la patria deve vivere. In un popolo tranquillo, libero e rispettato all’interno come all’esterno, si potrebbero ascoltare i consigli di generosità che vi si danno. Ma un popolo a cui si contesta ancora la sua libertà dopo tante lotte e tanti sacrifici, un popolo presso il quale le leggi non sono ancora inesorabili altro che per i disgraziati, un popolo presso il quale i delitti della tirannia sono soggetti di disputa, deve desiderare di essere vendicato. La generosità di cui vi si lusinga assomiglierebbe troppo a quella di una società di briganti che si spartiscono il bottino.

Io vi propongo di decidere seduta stante la sorte di Luigi. Quanto a sua moglie, la manderete davanti ai tribunali insieme a tutte le persone accusate dei medesimi attentati. Suo figlio sarà custodito nel Tempio fino a che la pace e la libertà pubbliche non siano assicurate. Per lui, io chiedo che la Convenzione lo dichiari da questo momento traditore della nazione francese e criminale verso l’umanità; chiedo che essa dia al mondo un grande esempio nello stesso luogo dove sono morti il 10 agosto i generosi martiri della libertà. Io chiedo che questo memorabile avvenimento sia consacrato da un monumento destinato a nutrire nel cuore dei popoli il sentimento dei loro diritti e l’orrore dei tiranni, e nell’anima dei tiranni il terrore salutare della giustizia del popolo.




http://www.madamedepompadour.com/_luigiXVI