"L’anello di Fersen"
(una realtà diventata leggenda)




Quasi non era più notte, il giorno si avvicinava, l’aria diveniva più intensa; si avvertiva il mattino. Le fibbie dei cavalli tintinnarono un po’ mentre al cambio si attaccavano nuovi cavalli alla berlina. Fersen indugiava al finestrino della vettura dal lato della Regina. Pronuncia ad alta voce il nome della sua supposta padrona “Madame Korff”, la saluta, poi si rigira per riprendere la strada di Bruxelles dove egli stesso aveva l’intenzione di rifugiarsi. Ma nel momento in cui lui stava per allontanarsi, si dice che la Regina gli prese la mano e infilò un anello al suo dito. Era un anello d’oro giallo, grande e pesante, con una ignota pietra incastonata. Quest’anello è stato custodito fino ai nostri giorni. Ed ecco la sua storia.

Era nuovamente il 20 giugno, quel solstizio d’estate nefasto ai Borboni e ai loro difensori. Diciannove anni erano trascorsi da quando Fersen aveva lasciato la Regina a Bondy, diciassette anni da quando il suo cuore spezzato per la morte di Maria Antonietta era divenuto silenzioso. Le sue continue campagne gli avevano impedito di mostrare prematuramente i segni della vecchiaia; non aveva ancora raggiunto i limiti del declino, avendo appena cinquantacinque anni...Ma delle emozioni così dolorose e così tragiche l’avevano a tal punto lacerato che la sua anima austera e silenziosa si era ripiegata su se stessa; da molto tempo non sembrava più appartenere agli uomini di questo mondo. Il suo volto conservava perennemente un’espressione severa e i suoi occhi un completo disprezzo del pericolo e della morte.

L’ora della sfida era arrivata. Allora egli era maresciallo; il popolo di Stoccolma era un brusio. Era stato sradicato dalla sua vettura, scacciato dai suoi appartamenti e se ne stava tutto solo, sanguinante, sui gradini di Riddenholm (i gentiluomini erano barricati all’interno della chiesa, e l’avevano lasciato solo fuori dove stava per morire). Il popolo lo odiava, ma lo odiava ancora di più per un grande e oscuro anello ch’egli portava al dito, perché si diceva, tra il popolo, che quell’anello era magico e che la sua pietra donava la morte ogni volta che la si puntava verso qualcuno. Lo stesso Carlo Augusto un giorno aveva notato quest’anello alla parata; s’era inclinato per vederlo ed era caduto morto dal suo cavallo...

Fersen, in piedi, ferito, solo, il popolo urlante era attorno a lui, brandiva la spada nella sua mano destra;ma l’anello che portava alla sinistra era una migliore arma e nessuno osava avanzare. Infine un traditore (poiché c’è sempre un traditore in tutte le tragedie), uno dei suoi servitori che era divenuto pescatore, trascina altri pescatori e dice loro di raccogliere delle pietre. In piedi, sotto di loro sugli scalini della chiesa, Fersen fu così lapidato e assassinato. Quando fu morto, il volgo avanza e accerchia il suo corpo, ma non osa avvicinarsi troppo e distoglie gli occhi dall’anello. Allora il traditore più ardito degli altri, s’avvicina con un’ascia e, proteggendosi gli occhi, taglia il dito della mano. La folla applaudiva come se stesse applaudendo ad un uomo che avesse tolto la miccia di una bomba. S’allontana correndo voltando sempre la testa e getta nel fiume il dito con l’anello della Regina. L’indomani Stoccolma era così calma come se niente fosse accaduto il giorno prima.

Di buon’ora, quel mattino Zaffel partì in barca sulle acque fredde del lago, e, per una leggera brezza fece vela per risalire il fiume; voleva pescare. Quando ebbe lasciato dietro di lui le numerose isole della città, nel momento in cui attraversava un luogo isolato circondato di abeti, sentì un leggero colpo sulla chiglia della barca che s’arresta improvvisamente... s’inclina in avanti e guarda; non vedeva altro che l’acqua verde e profonda che gorgogliava sotto di lui. Appena si rigirò verso la parte posteriore della barca, improvvisamente vide con terrore una mano tagliata che stringeva fortemente l’albero; il sangue che era visibile al polso non colava. La mano serrava l’albero e Zaffel tremando tutto vide che a quella mano mancava un dito. Nonostante la corrente e il vento la barca si mise a spostare in avanti la vela penzoloni, e Zaffel seduto al timone capì che la forza che spingeva l’imbarcazione veniva dall’albero sul quale egli non osava più sollevare gli occhi. La barca navigava dritto verso i mulinelli di Moelar. Di tanto in tanto il pescatore muoveva il timone, ma niente rispondeva al suo movimento.

In questo periodo, non c’è notte nel nord, ma una specie di crepuscolo, che, se ci sono delle nuvole, passa dalla tinta grigia della sera alla tinta grigia dell’aurora. Zaffel era rimasto accovacciato e gelato all’avanzare della sua barca mentre tutto il giorno e questo crepuscolo grigio adesso piombavano su di lui. In questa penombra fosca, scorse molto lontano risalendo la corrente un masso bianco dove sembrava luccicare una misteriosa fosforescenza, e al centro di questa luce, posato sul bordo della pietra, brillava l’anello. Lo prese come se obbedisse ad un ordine, e solo allora osa levare gli occhi sull’albero. Vide la mano, in quel momento tutta intera, allentare la stretta e in fine scomparire; egli sentì allora o vide la barca liberata virare e discendere la corrente.

Quando fu di ritorno alle banchine di Stoccolma, tutto tremante per il freddo del mattino, dopo un digiuno di ventiquattro ore, i suoi vicini, tirando l’ormeggio, gli fecero delle domande. Rispose loro con delle canzoni prive di senso, intravedendo ancora la sinistra visione, con dei gesti privi di senso Era divenuto folle. Lo condussero in manicomio. Sull’isola dei cavalieri, nella chiesa di Riddenholm, i gentiluomini che avevano abbandonato Fersen la vigilia erano adesso riuniti attorno alla sua bara per rendergli gli ultimi onori. D’improvviso notarono sul drappo mortuario, alcuni con curiosità, altri con indifferenza, il grande anello d’oro giallo con la pietra sconosciuta. Quando si dovette interrarlo, i becchini non osarono mettere l’anello nella bara come avrebbero dovuto. Lo affidarono alla famiglia di Fersen dove è custodito ancora oggi per portare disgrazia e donare degli incubi.




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